venerdì 13 marzo 2020

La peste di Atene


Vorrei riportare come testimonianza letteraria di epidemie passate la sezione finale del “De rerum natura” di Lucrezio, un’opera composta nel I secolo a.C. e che prende come riferimento un’epidemia di una malattia che si può identificare con la peste avvenuta nel 430 a.C. ad Atene, già riportata, ed è anche il riferimento di Lucrezio, da Tucidide, storico greco.

"E se qualcuno di questi, come accade, era sfuggito a morte e funerali, per ulcere orrende e nero flusso di ventre, più tardi tuttavia lo attendevano consunzione e morte o anche molto sangue corrotto, spesso con dolore di testa, gli colava dalle narici intasate: qui affluivano tutte le forze dell’uomo e la sostanza del suo corpo.
Se poi qualcuno era scampato al terribile profluvio di sangue nero, ciò nonostante la malattia gli penetrava nei nervi e negli arti e fin dentro gli stessi organi genitali.
E alcuni, gravemente temendo il limitare della morte, vivevano dopo essersi mutilati del membro virile col ferro, e alcuni senza mani e piedi tuttavia rimanevano in vita, e alcuni perdevano il lume della vista: a tal punto in costoro si era insinuata terribile la paura della morte.
E inoltre un oblio di tutte le cose invase alcuni al punto di non essere più in grado, essi stessi, di riconoscersi."

Lucrezio descrive uno scenario apocalittico, passa in rassegna minuziosamente tutti i sintomi e le fasi della malattia che portano alla morte; descrive poi l’accumulo di cadaveri su altri cadaveri, i templi pieni di cadaveri. Ecco, questa probabilmente era una rappresentazione realistica delle conseguenze della peste. Questo era ciò che causava panico allora. Risulta palese la differenza che sussiste tra l’epidemia di Lucrezio e la nostra; eppure, grazie all’informazione massiccia e capillare, che rende tutto il mondo a portata di mano, già dall’inizio questa epidemia sembrava essere entrata in tutti i borghi e le città d’Italia e si potevano rintracciare nella popolazione comportamenti di panico simili a quelli descritti da Lucrezio.

L’autore condanna le superstizioni popolari che non fanno altro che aiutare l’epidemia a dilagare (per esempio l’accumulo di cadaveri nei templi) ed è evidente in tutta l’opera l’approccio quasi scientifico alla realtà; nonostante ciò, in questo brano l’autore sottolinea l’imbarazzo della medicina di allora di fronte all’epidemia. Certamente i mezzi erano incomparabilmente diversi, però il concetto di fondo rimane lo stesso: la fragilità, i limiti e la mortalità dell’uomo. 

"E infatti il contagio dell’anima malattia non cessava in alcun modo di attaccarsi dagli uni agli altri, come se fossero lanute pecore e stirpi bovine.
E questo soprattutto accumulava morti su morti. Infatti tutti quelli che evitavano di visitare gli ammalati, desiderosi troppo della vita e timorosi della morte, la mancanza di cure li puniva poco dopo con morte turpe e miserabile, uccidendoli da soli, privi di aiuto."

Queste sono le certezze su cui si basa l’opera di Lucrezio ed è proprio per la fondamentale importanza di tali riflessioni che l’opera si chiude su questo episodio, ma queste sono anche le certezze che si tendono a dimenticare in un mondo così avanzato come il nostro in cui l’uomo è considerato come onnipotente. Epicuro aveva individuato il quadrifarmaco contro la paura, ma è tanto più evidente oggi di allora (poichè allora avevano qualcosa di cui avere una paura tanto grande) che questa scoperta filosofica è rimasta ignorata. L’uomo è fragile, e deve essere pronto ad accettare morte e le malattie, che sono proprie della sua natura: il panico non serve a niente. 

Oggi abbiamo una comunità scientifica a cui affidare il nostro comportamento esteriore per evitare il dilagare dell’epidemia, ma lo sforzo maggiore da compiere è all’interno di noi stessi. 
Lucrezio sottolinea anche il cessare in molti casi dei comportamenti che unici avrebbero potuto offrire una sorta di sollievo nella morte: l’assistenza reciproca, l’amore verso il prossimo (in questo caso come esempio opposto viene in mente un altro episodio letterario, la madre di Cecilia nei “Promessi sposi”). Allora è fondamentale conservare nei momenti difficili il contatto umano, i valori dell’humanitas, non spogliarcene ed essere immensamente grati a coloro che spendono la vita nell’assistenza dei malati, perché, di tutto il brano sulla peste di Atene, il momento peggiore è la descrizione della morte solitaria dei pastori e dei contadini: “Inoltre ogni pastore di greggi o di armenti e parimenti il reggitore del curvo aratro, pieno di vigore, languivano e i loro corpi giacevano ammassati in fondo alle capanne, abbandonati alla morte dalla povertà e dal morbo.”.

Lucrezio, De rerum natura, VI, 1230-1286

Umberto Ronco VB

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