mercoledì 8 aprile 2020

Una stanza ed un ragazzo

Questo periodo di quarantena sta lasciando un solco. Un solco profondo nelle vite di tutti noi tanto intensamente quanto impercettibilmente sento che scava in me. Sotto questo aspetto mi ritengo fortunato: non ho subito uno shock tale da destabilizzare la mia personalità. La mia fortuna proviene soprattutto da due fattori, il primo è la situazione nella quale vivo la quarantena: in una casa “popolata” e con un cortile; il secondo motivo è l’abitudine che ho, credo a mio merito, coltivato negli anni: cioè saper piegare la mia volontà alle necessità e saper trovare cose da fare in compagnia di me stesso. In realtà non credo che l’ultimo fattore sia un mio merito, poiché già solo la quantità di libri belli nel mondo permette di non prefigurarsi un solo istante improduttivo nella quarantena. 
Insomma, non so. Tutto ciò, che è assolutamente corretto, dal momento che se tutti impiegassero la quarantena a leggere, o anche solo a riflettere, si potrebbe avere una speranza di rinnovamento della società in qualcosa di imprevedibilmente bello, stride e contrasta in maniera assordante con le sensazioni che provo a volte. A volte, infatti, nelle mie riflessioni, mi colpisce improvvisamente un fulmine che genera in me un tuono di ansia che si propaga in tutte le membra. Forse perché una riflessione troppo prolungata senza alcun elemento concreto che distragga la mia mente o che la arricchisca di dati e immagini interessanti provoca di per sé una qualche alienazione dalla realtà, come accade quando si pronuncia numerose volte una parola e ci si rende conto che il vocabolo non ha alcuna connessione oggettiva con la cosa e ci si ingarbuglia nel pensiero che, tuttavia, quel vocabolo è l’unico metodo che abbiamo per esternare la nostra anima, per definire chi siamo; e questa alienazione, questo squilibrio tra realtà, idee e infinita vanità che assumono queste dopo che le si sviscera, forse, genera in noi un terremoto emotivo, tanto repentino quanto distruttivo. Oppure forse perché finalmente si ha una concezione reale di cosa sia il tempo; esatto, perché quando ci si accorge che il tempo, che in questa circostanza appare più dilatato che mai, non basta nemmeno per finire tutte quelle che avevamo messo nel ripostiglio “se avanza tempo, poi…” si prova una vergogna per il tempo passato e un terrore per quello futuro tale da paralizzare anche il più convinto sostenitore del “massì, tanto poi…” (come se si potesse delegare qualcuno per la nostra felicità). Sarà invece perché, per la prima volta o quasi, ci rendiamo conto che la nostra vita è nelle nostre mani e ci troviamo di fronte ad una sorta di kierkegaardiana angoscia per l’indeterminato, per le scelte che dobbiamo e dovremo affrontare; può sembrare paradossale dire ciò nel momento in cui si è rinchiusi nelle mura domestiche, ma, come insegna Seneca, il luogo del corpo non ha nulla a che fare con lo stato dell’anima e, secondo me, quest’ultima al momento è più libera che mai. O forse semplicemente perché è precipuo e insito alla natura umana un equilibrio tra rapporti con gli altri e rapporti con se stessi che consente, se non la felicità, almeno la sanità mentale; e forse i nostri pochi rapporti umani che ci rimangono, non nutriti da altre esperienze (perchè in fondo siamo un po’ tutti dei “tacchini induttivisti”) e con il nostro spirito che cerca di sfogare su di essi tutto il concentrato di socialità di cui necessitiamo, sono poco curati e portano più a scontri rabbiosi che ad incontri piacevoli.
Non so, forse sono solo io che nei miei deliri di riflessione mi fingo e mi convinco di essere “malato” come il “Malato Immaginario” di Moliere o come Zeno Cosini.

Può darsi che sia questo; ma al momento questa è l’unica realtà che vivo e la racconto, così come mi appare, cercando di essere il più onesto possibile.

Umberto Ronco, VB

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