domenica 20 novembre 2022

La Buona Novella

Buongiorno a voi, cari lettori del blog. Spero che tutti stiate bene. 
È passato parecchio tempo senza che pubblicassi alcunché qui sulla Scatola, per questo ho deciso di tornare a farlo e di inaugurare questo mio ritorno con un post in formato maxi.
L'argomento di cui oggi ho deciso di parlarvi riguarda La Buona Novella, quarto album in studio e secondo concept album del celebre cantautore Fabrizio De André. 
La Buona Novella risale al 1970. In questo disco De André racconta, come si può intuire dal titolo, il Vangelo, ma, a differenza di ciò che ci si potrebbe aspettare, scrive i testi delle canzoni ispirandosi non ai quattro Vangeli canonici, bensì ai vangeli apocrifi, cioè l'insieme dei testi religiosi riferiti, in particolare, alla figura di Gesù Cristo esclusi dal canone biblico.
Vorrei trattare proprio di quest'album perché è il mio preferito e soprattutto perché questo mese, novembre 2022, ricorre il cinquantaduesimo anno dalla sua pubblicazione. Pertanto mi piacerebbe sfruttare l'occasione per presentarlo a chi ancora non lo conoscesse e, inoltre, per cercare di stimolare lo spirito critico dei miei lettori.
La scelta, invece, di voler discutere tutto l'album e non una canzone in particolare non riguarda la possibilità che le singole canzoni decontestualizzate perdano bellezza, ma perché reputo che l'ascolto dell'album completo, nel suo ordine, fornisca un immagine molto più completa del messaggio che il cantautore vuole trasmetterci, che altrimenti apparirebbe frammentata. De Andrè lo fa con un climax ascendente di significato fino a raggiungere il suo apice in Il Testamento di Tito, ovvero la penultima canzone dell'album, ma ultima cantata da Fabrizio.
Fatta questa breve introduzione, vi allego il link per ascoltare l'album. Ascoltatelo, poi ci troviamo sempre qui per un'analisi delle canzoni.




Rieccoci qui. Spero vivamente che vi siate goduti l'ascolto, io non mi stanco mai di farlo. Sarò di parte, ma quest'album non può che considerarsi meraviglioso.
Come avrete potuto notare il disco è diviso in dieci tracce, di cui una è un Laudate Dominum di apertura della durata di soli 22 secondi. La scelta di voler aprire così l'album non è subito comprensibile, dal momento che De André non intende, come disse lui stesso tre anni prima nella canzone Si Chiamava Gesù«cantare la gloria/ né invocare la grazia o il perdono/ di chi penso non fu altri che un uomo». È però anche importante sapere che, nonostante De André non credesse nella natura divina di Gesù, ma solamente in quella umana, lo reputava "il più grande rivoluzionario di tutti i tempi». Quando scrisse La Buona Novella era il 1969, in piena manifestazione studentesca. Racconta lui stesso durante un intermezzo del suo ultimo concerto, che la gente all'epoca pensò che questo disco fosse anacronistico, perché in tempo di rivoluzione non era utile cantare la predicazione di Cristo. Ma La Buona Novella doveva essere di fatto un'allegoria, finalizzata a paragonare la rivoluzione guidata da Cristo con quella che, all'epoca in cui scrisse l'album, era in corso. C'è, però, da fare una precisazione: il vero protagonista dell'album non è Gesù. Infatti, a lui vengono dedicate due canzoni soltanto, una di queste è Via della Croce, nella quale ci viene illustrata la folla che lo segue sul Calvario: troviamo i padri dei bambini che Erode fece trucidare quando era un neonato. Questi gli lanciano grida ingiuriose sostenendo addirittura che Pilato abbia fatto bene a condannarlo a morte («Poterti smembrare coi denti e le mani/ sapere i tuoi occhi bevuti dai cani/ di morire in croce puoi essere grato/ a un brav'uomo di nome Pilato»). A seguire Gesù, piangenti, sono le vedove, che di fronte all'imminente morte provano il suo stesso dolore («Con riconoscenza ora soffron la pena/ di chi perdonò a Maddalena»). Scorgiamo poi gli apostoli più nascosti tra la folla, che lo seguono sgomenti e muti, attenti a non farsi riconoscere per non essere uccisi («Confusi alla folla ti seguono muti/ sgomenti al pensiero che tu li saluti/[...]/ nessuno di loro ti grida un addio/ per esser scoperto cugino di Dio:/ gli apostoli han chiuso le gole alla voce/ fratello che sanguini in croce»). Infine appaiono i ladroni, che non mostrano nessun interesse per la figura di Gesù poiché dovranno scontare la sua stessa pena e si limitano a seguirlo con le loro croci («Non hanno negli occhi scintille di pena/ non sono stupiti a vederti la schiena/ piegata dal legno che a stento trascini/ eppure ti stanno vicini»).
Perciò, se il protagonista dell'album, almeno per la prima parte e metà della seconda, non è Gesù, la vera protagonista dell'album deve essere Maria, e non una sola Maria, ma ben quattro, ovvero Maria bambina, Maria adolescente, Maria incinta e infine Maria madre, che verrà immersa completamente nel dramma vedendo suo figlio morire. A questa figura sono dedicate quattro canzoni, più una, Tre Madri, dedicata a Maria e alle madri di Tito e Dimaco, i due ladroni crocifissi insieme a Gesù.
Le canzoni che le vengono interamente dedicate sono L'Infanzia di Maria, Il sogno di Maria, Ave Maria e Maria nella Bottega d'un Falegname. Nella prima ci viene presentata la Madonna che, all'età di soli tre anni, venne portata da Gioacchino, suo padre, al tempio, dove trascorrerà la sua infanzia in mezzo ai sacerdoti e passerà le giornate in compagnia di un angelo del Signore che svolgerà il compito di «(direttamente rivolto a Maria) Misurarti il tempo fra cibo e Signore». All'età di dodici anni a causa delle prime mestruazioni, verrà espulsa dal tempio; si credeva infatti, che il sangue contaminasse la purezza del tempio. Allora i sacerdoti decisero di radunare tutti gli uomini che costituivano il «popolo senza moglie» della Giudea e di organizzare tra questi una specie di lotteria, il cui premio è proprio Maria, che verrà affidata a Giuseppe, il quale la porterà nella sua casa, triste perché il destino gli aveva affidato «una figlia di più senza alcuna ragione/ una bimba su cui (direttamente rivolto a Giuseppe) non avevi intenzione». Partirà subito dopo per dei lavori che lo aspettavano al di fuori della Giudea, dalla quale rimarrà lontano quattro anni. 
Il suo rimpatrio è raccontato in Il Ritorno di Giuseppe, viaggio fatto completamente a piedi, nel quale De André ci immerge completamente evidenziando impressioni, sensazioni e pensieri del falegname. Giuseppe ha con sé una bambola, pensando di fare un regalo a Maria, così potrà tornare «[...]a quei giochi/ lasciati quando i tuoi anni/ erano così pochi», ma quando giunge a casa, questa si getta nella sue braccia e Giuseppe si accorge, posando le mani sui suoi fianchi, che è incinta. Egli rimane sgomento e Maria, anch'essa scossa dal misterioso avvenimento e confusa, cerca nei ricordi di un vecchio sogno una possibile risposta 
La seconda della canzoni dedicate alla Vergine è Il Sogno di Maria e si presenta per gran parte come un monologo in cui questa spiega a Giuseppe la vicenda dell'angelo che veniva a farle visita tutti i giorni nel tempio e così accadde anche quel giorno, in cui: «l'angelo scese come ogni sera/ (Maria parla in prima persona) ad insegnarmi una nuova preghiera». A differenza degli altri giorni, però, l'angelo le trasformò le braccia in ali e così, volando sopra la città, poté vedere, dopo tanti anni, il mondo esterno al tempio. In seguito l'angelo profetizza la sua maternità per opera dello Spirito Santo: «- Lo chiameranno figlio di Dio - / parole confuse nella mia mente/ svanite in un sogno, ma impresse nel ventre». Concluso il racconto del sogno, Maria scoppia in un pianto dirotto. Giuseppe allora poserà le dita sulla sua fronte per accarezzarla e consolarla, probabilmente mosso a compassione di quella ragazza rimasta incinta in sua assenza e che, per questo, sarebbe dovuta essere lapidata secondo la pena che si riservava alle adultere. La conclusione della canzone si pone come l'inizio del canto successivo. Infatti, musicalmente si collega perfettamente ad Ave Maria, come fosse una canzone unica. Tra le due non si percepisce alcun punto di stacco, sia dal punto di vista della melodia, sia nel testo, infatti Ave Maria comincia con una congiunzione coordinante copulativa: «E te ne vai Maria, fra l'altra gente...». Vediamo Maria camminare in mezzo alla folla con il ventre gonfio e la canzone diventa una lode alla maternità, non solamente di Maria, ma di tutte le donne, infatti il cantautore non ricorre all'utilizzo del singolare, bensì del plurale: «femmine un giorno e poi madri per sempre/ nella stagione che stagioni non sente». È, infatti, molto caro al cantautore la riflessione della condizione femminile. La donna per De André rappresenta l'incarnazione terrestre del sacrificio, che secondo lui si manifesta fondamentale in tre forme, ma al momento ritengo di essere troppo acerbo per affrontare un argomento di questa portata, quindi vorrei dedicare in futuro un post a parte su tale argomento.
Possiamo affermare che con Ave Maria si concluda la prima parte del disco, quella dedicata all'infanzia. Avviene un salto temporale di trentatré anni che ci porta a Maria nella Bottega d'un Falegname. Tutta la canzone è immersa in un clima drammatico. Un pesante martello sta battendo dei chiodi sul legno, Maria chiede con voce flebile: «Falegname col martello/ perché fai den den?/ con la pialla su quel legno/ perché fai fren fren?/ costruisci le stampelle/ per chi in guerra andò?». No, il falegname non sta costruendo stampelle, quindi le risponde: «Mio martello non colpisce/pialla mia non taglia/ per foggiare gambe nuove/ a chi le offrì in battaglia/ ma tre croci, due per chi/ disertò per rubare/ la più grande per chi guerra/ insegnò a disertare»: sta, infatti, costruendo due croci per i ladroni («chi/ disertò per rubare») e una più grande per Gesù («la più grande per chi guerra/ insegnò a disertare»). In seguito a questa infelice premonizione comincerà la Via della Croce.
L'aspro viaggio sul monte si conclude con Tre Madri, ovvero la canzone del pianto di tre donne che vedono davanti ai loro occhi morire il proprio figlio. Esse stanno ai piedi delle croci, sulle quali i loro figli stanno vivendo i loro ultimi istanti terreni. Queste donne sono Maria e le madri di Tito e Dimaco, i due ladroni crocifissi insieme a Gesù. La canzone si presenta parzialmente come un dialogo, ma inizia in modo diverso. Infatti, comincia con due voci, la prima che si rivolge a Tito, la seconda a Dimaco. Queste voci non sono definite, ma secondo lo stesso cantautore, sarebbero rispettivamente le voci della madre di Tito e di quella di Dimaco. Ai due vengono rivolte frasi diverse, ma con stesso significato, ovvero che insieme a loro stanno morendo anche le madri, straziate vedendo il dolore dei figli: «Tito non sei figlio di Dio,/ ma c'è chi muore nel dirti addio/ Dimaco ignori chi fu tuo padre,/ ma più di te muore tua madre». Da qui in poi la canzone è un vero e proprio dialogo. Chi comincia a parlare sono le madri dei ladroni, che si rivolgono a Maria con parole forti, intimandole di non piangere così tanto la morte di Gesù, poiché lui risorgerà a differenza dei loro figli: «Con troppe lacrime piangi Maria/ solo l'immagine d'un'agonia/ sai che alla vita nel terzo giorno/ il figlio tuo farà ritorno/ lascia noi piangere un po' più forte/ chi non risorgerà più dalla morte». Il pianto della madre, però, non può fermarsi. Suo figlio potrà anche risorgere, ma adesso sta morendo: «Piango di lui ciò che mi è tolto/ le braccia magre, la fronte e il volto/ ogni sua vita che vive ancora/ che vedo spegnersi ora per ora». Inoltre, in mezzo alla folla sono presenti tantissime persone che avevano accolto Gesù come "Il Signore". Tra queste ne troviamo molte che hanno poi deciso la sua condanna (Via della Croce: «Trent'anni hanno atteso col fegato in mano/ i rantoli d'un ciarlatano»), ma anche altre che lo considerano ancora uomo giusto e figlio di Dio («e chi ti chiama "Nostro Signore"/ nella fatica del tuo sorriso/ cerca un ritaglio di paradiso»). Maria, al contrario, vive la morte di Gesù con una sofferenza che non ha pari e il suo dolore è così forte da rasentare la follia, fino al punto di dire che avrebbe preferito avere un figlio qualunque vivo, piuttosto che il figlio di Dio e assistere in vita alla sua morte: «Per me sei figlio, vita morente/ ti portò cieco questo mio ventre/ come nel grembo e adesso in croce/ ti chiama amore questa mia voce/ Non fossi stato figlio di Dio/ t'avrei ancora per figlio mio».
Quando la canzone finisce, De Andrè ci porta di fronte a un altro dolore, e lo fa spostando la narrazione dalla croce di Gesù, a quella di Tito, il ladrone che definiremmo buono. Tito in fin di vita, recita il suo testamento morale, da qui il titolo Il Testamento di Tito. La struttura della canzone è molto semplice, composta completamente da quartine e spesso quelle di numero pari presentano versi raddoppiati. Il buon ladrone, vicino alla morte, sulla croce riflette sui dieci comandamenti e su cosa hanno rappresentato nella sua vita. A ogni comandamento vengono dedicate due quartine (i comandamenti «non desiderare roba degli altri/ non desiderarne la sposa» sono riuniti in un unico comandamento),  nelle quali Tito confuterà quell'interpretazione rigida che tutti conosciamo facendo presente che una regola non può essere applicata sempre e indiscriminatamente. Afferma, ad esempio, «Non dire falsa testimonianza/ e aiutali a uccidere un uomo/ lo sanno a memoria il diritto divino/ e scordano sempre il perdono», infatti, noi tutti ricordiamo questo comandamento come «Non dire falsa testimonianza» e lo pensiamo come «Non dire le bugie», ma il comandamento originario è «Non pronunciare falsa testimonianza contro il tuo prossimo», ovvero «Non dirai alcuna falsità che possa danneggiare il prossimo». Ci ricorda anche quanto chi dovrebbe rappresentare e rispettare più di tutti i comandamenti, ovvero i farisei, non siano poi tanto migliori della gente comune, anzi, tutt'altro, poiché condannano chi non rispetta le leggi divine e sono, alla fine, i primi a non rispettarle («Il settimo dice non ammazare/ se del cielo vuoi essere degno/ guardatela oggi questa legge di Dio/ tre volte inchiodata nel legno»). De André stesso definisce Il Testamento di Tito come l'evidenziazione della contraddizione che esiste in chi fa le leggi a sua immagine e somiglianza, a suo vantaggio. Dopo aver riflettuto su ogni comandamento, un attimo prima di morire, Tito si commuove alla vista di Gesù accanto a lui. Questa sua commozione si trasforma presto in venerazione e subito dopo profonda sofferenza, perciò si rivolge a sua madre in questo modo:
«Io nel vedere quest'uomo che muore
Madre, io provo dolore
Nella pietà che non cede al rancore
Madre, ho imparato l'amore»
Personalmente credo che questi siano i versi più belli di tutto l'album, degni di un cantautore come De André. Così si spegne la vita di Tito che volerà insieme a Gesù nel Regno dei Cieli quello stesso giorno. Pur non credendo in Dio, De André ci ricorda che la salvezza dell'anima sta anche nel pentimento.
L'album giunge alla sua conclusione con una canzone dal titolo completamente opposto a quella iniziale: Laudate Hominem. Per rinfrescarvi la memoria, il disco inizia con Laudate Dominum, ovvero "Lodate il Signore". Allora perché, una volta giunti alla fine, quest'esortazione viene completamente ribaltata con "Lodate l'uomo"? Per rispondere dobbiamo ricordarci il contesto storico in cui il disco è stato inciso, ovvero quello delle rivolte studentesche del 1968. Come già detto sopra, l'album si ispira ai Vangeli apocrifi, poiché in questi, rispetto ai canonici, si sostituisce una concezione umana dei personaggi a una divina. Se quindi De André volesse lodare la rivoluzione guidata dal figlio di Dio, chiunque lo ascoltasse non potrebbe pensare di poter imitare tali imprese, poiché siamo uomini, non dèi. Invece De André, con La Buona Novella, vuole ottenere l'effetto contrario e lo fa con queste parole: «Non posso pensarti figlio di Dio/ ma figlio dell'uomo/ fratello anche mio». Possiamo quindi intendere nell'album l'intenzione di dare coraggio a una rivoluzione in cui si combatte per la libertà e lo fa umanizzando le figure della religione cristiana, soprattutto Gesù, per darci una nuova speranza usando il potere delle parole e della musica. 


Siamo così giunti al termine dell'analisi e del post, ovviamente sperando di non avervi annoiato e magari aver stimolato la vostra curiosità riguardo a questo incredibile cantautore. Se aveste interpretato quest'album come una blasfemia, vorrei solo rendervi consci del fatto che, in tal caso, state pensando le stesse cose che pensava la RAI nel 1970, censurando il disco. Perciò vi sorprenderà sapere che nello stesso anno sotto il pontificato di Papa Paolo VI lo stesso disco fu, invece, trasmesso da Radio Vaticana.
Spero vivamente che il post vi sia piaciuto, vi aspetto prossimamente sempre qui, sulla Scatola.

Francesco Banaudi

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